L’ho fatta accucciare.
Carezzo il capo, il nero lucido che attraverso in punta di dita. Seduto
alla scrivania.
Mentre telefono.
L’elenco telefonico aperto alla pagina gialla scelta con cura.
E prendo accordi definitivi. Carezzo il collo, mentre parlo con l’uomo
all’altro capo del filo, e infilo due dita tra collo e collare. E tiro
il capo a me, fino a sentirlo posarsi docile alle ginocchia.
Ecco, ora si sfrega, come ama fare.
Come amo che faccia.
“Arriveremo verso le 14. Sì.”
“Al pelo penso io, ora la preparo”
Sembra che la tensione sia solo nelle mie dita, strette tra cuoio e
collo, perché lei docile si lascia guidare e indugia col capo sul
tessuto dei pantaloni. Riaggancio, chiudo.
Sento il respiro umido e caldo passare oltre il tessuto, e arrivare alla
mia coscia lì sotto, e la bocca che nel torcersi del capo alla trazione
del collare nero cerca la mia mano e le mie dita. E le copre di saliva.
“Oggi ti porto a tatuare, così se mai ti perderai tornerai a casa” e la
carezzo. Soddisfatto del piacere che svela assecondando la mia mano.
“E dopo avrai un nome e un indirizzo e un padrone a cui essere
riconsegnata se succedesse di perderti mai”
Le parlo e la risposta alla mia voce è ancora la lingua che lambisce e
sfrega le mie dita.
“Non ti farà così male, il pelo lo rimuoviamo insieme ora, così sarà
tutto più semplice lì in bottega”
Mi alzo, tiro il collare con le dita.
Mi segue docile, in silenzio, senza rumore scivoliamo in bagno.
Recupero il mio rasoio e il pennello che non uso mai, sostituito dalle
bombolette. La bomboletta che odora di menta leggera. Un asciugamano
fresco di lavanda di bucato.
In sala già c’è una ciotola d’acqua tiepida da prima.
Lei mi segue. Al passo.
Fino alla sala.
“Siediti lì sulla poltrona, ma prima sfilati la gonna, e il perizoma”
Poso l’asciugamano che sa di bucato sulla seduta della piccola poltrona
e attendo che lei obbedisca e si sieda. La poltrona è in piena luce,
l’avevo spostata lì apposta poco prima.
“Brava, ora le cosce a cavallo dei braccioli”
La destra, la sinistra. Le solleva e le posa a ricadere oltre i
braccioli a lato, e così facendo scivola in fuori, col culo sul cuscino.
Le si infossa un poco nella schiena e mi offre il taglio nudo.
In piena luce che entra e scorre la stanza dalla finestra grande del
balcone.
“Non c’è molto da radere”, rido dicendolo e lei risponde alle parole che
ridono con me, solo col suo respiro.
Tolgo il tappo dalla bombola nera, la agito la spremo in testa e libero
una noce di crema bianca e profumata sul palmo della mano, Intingo,
giro, mescolo, impregno di schiuma, nel cucchiaio della mano, il
pennello che da secco diventa sempre più docile, morbido, e si lascia
corrompere da quella crema. Poi comincio.
Poso il pennello alto sul pube, scivolo tra le labbra. Senza pressione
alcuna sfioro. Lei chiude gli occhi. Subito e schiude solo le labbra,
dopo averle morse, come se dovesse sussurrare qualche cosa.
E non riuscisse a decidere nemmeno cosa.
Ora il pennello risale, contro corrente, e le labbra lì sotto a pelo
dell’asciugamano, sembrano farsi cosa improvvisamente viva. Si schiudono
e richiudono al suo progredire, occultate leggermente dalla schiuma. Il
pennello lambisce tra labbra e cosce ora, prima un lato. Poi l’altro, si
insinua e lecca.
Lei alza le reni e scivola più avanti, a fondo, offrendomi migliore
accesso e visuale più impudica, comoda. E vicina.
Lei ha un sospiro, il primo a liberarsi dalla gola. Lo sento e glielo
vedo scendere fino al ventre, all’emettere del piccolo suono misto ad
aria profonda dalla gola.
Ad occhi chiusi, il capo reclinato sulla poltrona, allo schienale, vedo
le contrazioni dei muscoli delle sue cosce appena aumento anche di poco
la pressione. O la rilascio e lei sembra che tremi.
Gioco una, due, più volte e dare e togliere pressione e leggere il suo
ventre e le sue cosce assecondare, seguire, a volte anticipare, sia il
mio dare che il mio rifiutare.
Scendo di nuovo, dando peso alla mano che guida la schiuma e la stempera
e dilata all’aprirsi delle setole vive. Poi le setole morbide e flesse,
spalancate nel cammino. Lei si apre sotto quel piccolo premere e la
punta del pennello inizia infossarsi sotto, tra le cosce, al taglio. E a
lasciarsi prendere, quasi inghiottire lì sotto, dove il suo sesso si
apre docile ora.
Ruoto il pennello, avvolgendo su se stesse le setole obbedienti e vive,
finchè le vedo scomparire dentro di lei, fino al legno del manico. Lei
rantola e vorrebbe serrare le cosce ora.
E’ sollevata sulla battuta del sedile, nemmeno tocca più l’asciugamani,
si sporge in fuori, reclama a bocca chiusa. E a bocca piena, sotto, col
bottone di legno che nemmeno più ho necessità di sostenere io con le mie
dita.
Sembra attendere e chiamare una consistenza vera, reale, maggiore, di
quella carezza fatta di nulla che la riempie e le fa desiderare più
corpo e forza tra le cosce. Il ciuffo di setole riemerge, compatto,
stretto, la punta torta leggermente a lato.
Lei resta aperta, un velo bianco semitrasparente di schiuma vela tutto
il pube, segue le curve, le anse della carne e della pelle, docile
schiuma di mare sulle onde del suo sesso.
Mi alzo.
Scosto le tende. Guardo in strada. All’una poca gente, soprattutto a
piedi.
Il corso non ha quasi traffico se non poche auto e le prime moto uscite
dai garage a nuova primavera.
Dal tavolo a cui faccio ritorno recupero ciotola e lama.
Poi mi inginocchio ancora davanti alle sue cosce, oscenamente sollevate
e spalancate, i piedi sospesi a mezz’aria oltre i braccioli.
Il rasoio scivola, rimuove, disegna righe, ara. Senza ferire indugia.
Dapprima a lato, poi sopra la congiunzione, in alto, dove lei ha ancora
quel poco pelo che per vezzo non ha mai levato. Sopra il clitoride che è
gonfio a dismisura sotto il velo della schiuma e le mille lingue di
setola che se ne sono prese cura.
Sciacquo la lama nella tazza bianca da caffelatte piena di acqua
tiepida, faccio correre le dita sulle lame sovrapposte, attento a non
tagliarmi, per liberarle da ogni pelo trattenuto tra di loro. E ridare
loro morso e vita ancora.
Poi ricomincio le discese, scosto le labbra con le dita dell’altra mano,
seguo ogni curva, con cura meticolosa.
A lei trema il ventre, poco sopra il lavoro delle mie dita, ad ogni
levarsi e posarsi delle lame.
Alla fine restano solo piccole tracce di schiuma. Un’arcipelago di isole
biancastre in mezzo alle scie delle lame che hanno solcato ventre e
pube, seguendo ogni costa a fil di bordo, con infinita calma e cura.
Col lembo dell’asciugamani su cui è seduta, le rimuovo, sfregandola con
leggerezza e cura. Le labbra glabre cedono ancora alla pressione del
cotone, sono gonfie, larghe, piene, mature, perfettamente disegnate,
cariche di ombre e di umori. Che appena asciugate già la imperlano
ancora.
Passo le dita sul mio lavoro. Sono soddisfatto: non trovo asperità,
traccia alcuna di pelo al risalire contrastandone la natura. Insinuo un
dito tra le labbra. Flesso a uncino, scompare subito, senza fatica
alcuna.
Emerge lucido di voglia, lasciandola socchiusa.
“Rivestiti, basta la gonna sola, sotto non serve nulla ora”
Lei infila la gonna, i sandali coi lacci alle caviglie.
E usciamo, lei nuda a ricevere l’aria tra le cosce sul fresco di menta
della sua rasatura. Come il mio viso ogni mattina. Quel bacio di menta e
aria che è così tangibile e così persistente almeno per qualche ora. Che
fa sentire la pelle liscia e nuda senza nemmeno doverla cercare a
verificarlo con le dita.
Ad ogni passo percepirà la sua nudità totale ora, il freddo e l’umido
che la imperla ancora, la sentirà quando si accomoderà in auto e la
gonna non coprirà perfettamente nemmeno la fessura.
E poi ancora in strada, ad ogni passo, ad ogni alito di vento animato
dalla gonna nel moto delle cosce, tra gente che di noi nemmeno,
incrociandoci, si cura.
Dal tatuatore sarà ancora nuda.
Avrà tolto la gonna.
Mi ascolterà parlare. Spiegare ancora quello che già il giorno prima,
accordandomi con lui, saranno state le mie istruzioni. Vagherà con lo
sguardo senza osare guardare in viso né me né l’uomo che mai ha visto
prima. Ma che sa di me, di lei, dello scopo della visita e del lavoro
sulla sua pelle viva che si appresta ad eseguire ogni cosa.
Scorrerà prima la vetrina che divide la saletta dall’anticamera. Vedrà
la porta chiusa a separarci da chi dovesse entrare nel negozio ora.
Barriera inconsistente se lei avrà grida a sfuggirle dalla gola.
Poi indugerà sui disegni alle pareti, simboli, croci, anelli rituali,
rune. Animali.
E il tavolino con gli apparecchi, lucidi di acciaio e aghi nuovi, che
vedrà scartare per apprestarsi a baciarle il pube
Vedrà sul foglio il disegno che nemmeno conosce ancora.
Il simbolo. Mio. Scelto con cura.
Siederà sulla piccola poltrona, nel retro della miscroscopica bottega.
Ascolterà le domande dell’uomo, a me, le mie risposte senza pudore di
lei alcuno, e ne sentirà le dita percorrere, come fecero le mie, la
perfezione glabra della sua pelle dopo la mia rasatura. Forse ne
percepirà un indugiare eccessivo. Delle dita sconosciute lì, dove l’ho
penetrata prima io.
Se l’uomo la toccherà in quel modo io non avrò reazione alcuna, a
frenarlo o impedirgli di sondarne la voglia con le dita. Lei che mi
consoce e lo sa ne tremerà già all’attesa.
Come io mi tendo al pensiero già in auto, sto parcheggiando davanti alla
bottega, immaginando possa succedere ora.
Lei avrà gli occhi chiusi, sarà rossa in viso, le mancherà probabilmente
fiato e respiro.
Reprimerà ogni gemito in modo maldestro, sarà senza pudore e al tempo
stesso così fragile epiccola da aver desiderio io di portarla via,
sottraendola a quella violazione. Se lui avrà l’ardire di toccarla lì
ancora.
Poi l’uomo comincerà a disegnare, lì, tra labbra e coscia, dove la carne
urlerà più forte, dopo, sotto, per ore, ben altra scrittura.
Firmerà per me. Dove la sua carne si fa donna.
Un piccolo dolente segno nero, avvolto su se stesso come la sua paura.
Tamponerà dove l’ago elettrico avrà scolpito.
Lei suderà, sudore sulla pelle e sudore più denso e carico di odore lì,
dove è esposta, lucida e bagnata, gonfia e provocatoriamente oscena e
aperta ora.
La guarderò.
Sarò felice.
Perché se mai dovesse perdersi, ora col mio tatuaggio, ritroverebbe ogni
volta la sua via. La casa.
La mia.
Perché lei è mia.
|